Christopher Joseph Isaak nasce nel 1956 a Stockton, regno del surf, da padre operaio e madre cameriera originaria della Liguria. Qualche trascorso da pugile, carriera che gli ha regalato il familiare naso a scarpetta; ovviamente appassionato di surf, passatempo che celebra in quasi tutti i suoi dischi; amico di registi come David Lynch e Jonathan Demme; ma, soprattutto, grande amante del sonno: ai tempi del suo primo e ultimo concerto italiano, nei primi anni 90, intervistato da Videomusic confessava di dormire più di dodici ore al giorno! Un personaggio in fondo solitario, pacato e tranquillo, lontano dai riflettori, nonostante la parallela carriera come attore e personaggio televisivo. E, forse per via della sua aria un po' piaciona, tremendamente sottovalutato dalla critica, che l'ha spesso bollato come un semplice imitatore di Elvis Presley e Roy Orbison, i suoi due miti musicali, accusandolo di scarsa originalità.
L'immaginario che forma musicalmente Chris Isaak è quello di un tipico e bravo ragazzo americano, fatto essenzialmente di poster di Elvis, film di Dean Martin, 45 giri di Roy Orbison, concerti di Bo Diddley. Uno scenario di cui ha spesso fotografato ed evocato gli aspetti più malinconici e solitari. I suoi testi traboccano di frasi come "I still love you", "I miss you", "She's gone" e tutto il consueto rosario da motel dei Cuori Spezzati, ma mai come nel suo caso vale quel che diceva Umberto Eco a proposito di "Casablanca": "Un cliché ci fa sorridere, cento ci commuovono". È recitando un tale mantra di luoghi comuni da canzonetta che Isaak a volte si è spinto fino a quei "paesi d'ottobre" dove la nostalgia diventa inquietudine cosmica.
Gli anni OttantaDopo essersi diplomato al college e aver trascorso un periodo di studio in Giappone, nei primi anni 80 Chris Isaak fonda quella che sarebbe diventata l'unica band della sua carriera, vale a dire i Silvertone, composta dagli amici di sempre, ancora oggi tutti al suo fianco come gruppo di supporto. Tutti tranne il prezioso chitarrista James Calvin Wilsey, della parrocchia di Hank "Shadows" Marvin e in precedenza già bassista degli Avengers (uno dei più influenti gruppi punk californiani), che con il suo stile tagliente segnerà a fondo il sound dei primi album di Isaak.
Un demo contenente "Gone Ridin'" - il brano-manifesto della sua prima parte di carriera, quella più incentrata sul rockabilly - vale a Chris Isaak la firma per un contratto con la Warner Bros. Records, che in lui intravede un potenziale nuovo Elvis (anche gli scatti fotografici di quel periodo giocano sull'equivoco).
Nel 1985 viene immesso sul mercato Silvertone, l'album di debutto di questo misterioso cantante così spudoratamente vintage, che canta in falsetto come Roy Orbison e possiede, allo stesso tempo, l'indolenza del Ricky Nelson di "Lonesome Town" e la carica sensuale di Elvis The Pelvis. Nello stesso periodo in cui Nick Cave va metaforicamente a disseppellire il cadaverino del gemello morto di Elvis, il più igienico e beneducato Isaak si limita a evocare il fantasma del Re in un disco di rock'n'roll sospeso e stregato, in cui dà vita a una uggiosa Zona del Crepuscolo dove regnano nostalgia e solitudine. Per capire l'aria che si respira bastano i titoli di alcune canzoni: "Voodoo", "The Lonely Ones", "Unhappiness", "Tears" e soprattutto il manifesto programmatico "Funeral In The Rain".
La tristezza generale è corretta solo da un paio di pezzi surf ("Livin' For Your Lover" e "Pretty Girls Don't Cry"), gli unici momenti rilassanti e solari in un lavoro perlopiù caratterizzato da toni oscuri e spettrali (da antologia, in tal senso, la tripletta formata da "Voodoo", "Funeral In The Rain" e "The Lonely Ones"). Un esordio praticamente perfetto, in cui impressiona la capacità di Isaak nel creare atmosfere di enorme suggestione, in canzoni che durano tutte intorno ai tre minuti. Non è da meno il gruppo che lo accompagna, in cui spicca il chitarrista James Calvin Wilsey, in grado di spaziare con maestria tra rock'n'roll, surf, country e atmosfere western.
La critica ne rimane piacevolmente colpita, ma lo stesso non si può dire del pubblico, che boccia l'album, destinato a rimanere un fiasco commerciale. Del resto, il revival del rockabilly, piuttosto in voga nei primi anni 80 grazie a gruppi come gli Stray Cats e i Blasters (senza dimenticare il fondamentale apporto dei Cramps per la riscoperta del genere), aveva già sparato le sue ultime cartucce; Isaak e soci sembrano dunque arrivati fuori tempo massimo.
La Warner Bros. addirittura è già pronta a rompere il contratto, ma provvidenzialmente interviene John Fogerty in persona (che aveva particolarmente apprezzato il disco), grazie al quale viene concessa una seconda possibilità al cantante californiano. Ad accorgersi di lui è anche uno dei più grandi ammiratori di Roy Orbison presenti in circolazione, vale a dire David Lynch, che decide di inserire due tracce contenute in Silvertone ("Gone Ridin'" e "Livin' For Your Lover") nel suo "Velluto blu". Per Chris è l'inizio di una proficua collaborazione con il regista di Missoula, che proseguirà anche negli anni seguenti.
L'insuccesso del disco d'esordio non scoraggia Isaak, che un anno più tardi ci riprova, con un lavoro omonimo ancora più ossessivo nel descrivere un mondo di cuori spezzati, letti sfatti e stanze d'albergo solitarie ("Blue hotel/ On a lonely highway/ Blue hotel/ Life don't work out my way/ I wait alone each lonely night", da "Blue Hotel").
Chris Isaak è il suo album più chitarristico, ferroso e spedito, con qualche leggera spezia psichedelica (come nel lento crescendo ipnotico di "Fade Away"). Una corsa a fari spenti nella notte tra rock'n'roll notturni e ballate trasognate. Si tira il fiato musicalmente - ma non noi testi - solo nei consueti omaggi alle sonorità surf.
Unica luce nella notte la finestrella pop di "This Love Will Last", uno dei gioielli più nascosti del canzoniere di Isaak. In un album che sconta solo un lieve calo di tensione verso la fine, memorabile il trittico di canzoni che apre il disco, tra cui una cover degli Yardbirds, "Heart Full Of Soul", di cui Isaak si appropria talmente da farla sembrare un brano suo, stilisticamente indistinguibile dagli altri.
Le vendite cominciano a diventare incoraggianti - grazie al successo ottenuto da "Blue Hotel", Chris Isaak diventa disco di platino in Francia - e aumentano le recensioni positive: intorno all'ex-pugile si crea così un piccolo culto.
Il 1989 è l'anno di Heart Shaped World. L'album di "Wicked Game", la canzone che marchierà a fuoco la sua carriera, è più vario dei due precedenti. Gli intrecci incantati della chitarra di Wilsey uniscono sotto un'unica magica atmosfera le varie anime di Isaak, che cantano separate in casa, dividendosi tra pezzi di schiumoso surf-rock, blues intrisi di sensualità sudaticcia (chiude l'album un'irresistibile e ironica suite voodoo, con il Nostro che dà quasi l'impressione di prendere in giro alcuni imitatori di Jim Morrison) e ballate morbose. La specialità della casa sono ovviamente queste ultime, che qui vanno a comporre una scala reale da brividi: la trascinante title track, l'atmosfera da camionisti suicidi di "Kings Of Highway", l'ipnotica depressione di "Nothing's Changed", il fatalismo blueseggiante di "Wrong To Love You", il naufragio timbuckleyano di "Blue Spanish Sky" e ovviamente la già citata "Wicked Game": unica, onirica, avvolgente, un classico, una canzone di quelle che capitano una volta su un milione.
È solo quando David Lynch inserisce la versione strumentale di "Wicked Game" nella colonna sonora di "Cuore selvaggio" che le radio notano il brano. Il resto lo fa poi il celeberrimo video (che, nel 1991, si porterà a casa tre Mtv Video Music Award), girato dal fotografo Herb Ritts con l'allora super top model Helena Christensen, fonte inesauribile di sogni proibiti per un'intera generazione di maschietti. Per Isaak è la fama, certificata dalla prima raccolta di successi, Wicked Game,pubblicata nel 1990, il cui unico inedito è il suddetto brano strumentale e che logicamente diventerà il suo disco più venduto in assoluto. E, tutto sommato, come biglietto da visita del cantante funziona ancora bene.
Gli anni Novanta
Per il suo primo album da stella conclamata, Isaak cambia un po' le carte in tavola, ammorbidendo il sound e stemperando la sua focosa tristezza in tiepida malinconia.
San Francisco Days, uscito nell'aprile del 1993 e dedicato alla memoria del tecnico del suono Louie Beeson, è un omaggio alla San Francisco pop (non lisergica) degli anni 60. Fin dalla grafica volutamente cheap, il lavoro si finge una raccolta di canzoni eterogenee, che a partire dal pop a uncino della title track passa in rassegna l'immaginario musicale della città, tra i soliti momenti surf-rock, ballate acustiche, jam blueseggianti, ritmi felpati, country pop, influenze latineggianti, atmosfere da exotica.
L'ex-pugile prende anche "Solitary Man" di Neil Diamond, gli strappa di dosso i lustrini da Las Vegas e la trasforma in una sentita ballata delle sue.
È un periodo in cui Chris Isaak intensifica la sua parallela carriera cinematografica, apparendo ne "Il silenzio degli innocenti"di Jonathan Demme (regista che lo aveva già fatto debuttare, in una piccola parte, nella commedia ironica "Una vedova allegra... ma non troppo"), nei panni dell'agente dell'Fbi Chester Desmond in "Fuoco cammina con me" (prequel di "Twin Peaks"diretto da David Lynch) e soprattutto, in un ruolo da protagonista, in "Piccolo Buddha" di Bernardo Bertolucci.
A metà decennio James Calvin Wilsey esce dal gruppo. Rimasto senza chitarra solista, Isaak sforna il suo album più acustico e meno arrangiato, dove trova la giusta sintesi tra il clima più leggero del disco precedente e i tormenti dei primi album.
A livello tematico, Forever Blue è un disco letteralmente ossessionato dalla solitudine, una specie di "Spoon River" degli amori finiti. Il disco si apre con la minaccia sorniona di "Baby Did A Bad Bad Thing" (che Stanley Kubrick inserirà in una scena clou di "Eyes Wide Shut") e si conclude con la serenità del suicida di "The End Of Everything", in mezzo undici pezzi di altissimo artigianato della canzone.
Anche nei rari momenti in cui il ritmo si fa più vispo - come nell'orecchiabile "Somebody's Crying", singolo di buon successo, o nelle travolgenti "Go Walking Down There" e "Goin' Nowhere", con l'ugola del Nostro in bella evidenza - lo scenario è sempre quello desolato fatto di spiagge deserte, falò che si stanno spegnendo e specchi traditori nei corridoi. Intuizioni che anticipano quel caratteristico stile che Lana Del Rey avrebbe poi fatto suo.
Per il successivo Baja Sessions, pubblicato un anno dopo, entra in scena il nuovo chitarrista Hershel Yatoviz, più raffinato e meno graffiante del predecessore. La messa a punto del gruppo rinnovato è una suggestiva raccolta acustica, che mescola vecchi pezzi in versioni più morbide e rilassate, eleganti cover d'annata (Dean Martin, Bing Crosby, Roy Orbison, country d'antan, tradizionali hawaiani) e solo tre timidi inediti. Un disco affascinante, calmante, pigro, che celebra "un posto chiamata Baja - più cactus che persone", come lo descrive Isaak stesso in una nota.
Nel probabile tentativo di aggiornarsi e sfuggire ai proprio cliché, due anni più tardi Isaak mette un po' da parte le atmosfere nostalgiche e d'altri tempi e tenta un approccio più moderno, pur lavorando al suo solito materiale fatto di vecchio rock'n'roll e ballate. Il riferimento principale sembra essere Tom Petty e il suo folk-rock adult oriented, con qualcosina dei Rem più lunari (la bellissima "Black Flowers").
Speak Of The Devil è il suo disco più contemporaneo, notturno e urbano, quello che in un certo senso suona più "normale". Tarda un po' a ingranare, si ingolfa in "Breaking Apart" (ballatona melassosa, la peggior cosa mai scritta da Isaak, eppure la propinerà ancora nel disco del 2009), ma dalla rovente title track in poi l'album inserisce la marcia giusta, conducendo l'ascoltatore in un piccolo viaggio in bianco e nero nell'America di fine millennio. Significativa e amaramente profetica la chiusa strumentaleà laTarantino di "Super Magic 2000", con tanto di spari e sibilare di pallottole.
Gli anni DuemilaDal 2001 al 2004, con le consuete massicce dosi di autoironia, Isaak interpreta la parte di se stesso in una divertente e fortunata situation comedy per la tv via cavo, "The Chris Isaak Show" (passata anche da noi su Rai Due a notte fonda). L'impegno rallenta ulteriormente il suo già rilassato passo discografico.
Nel mezzo della sua nuova attività televisiva, il cantante californiano trova comunque il tempo per incidere Always Got Tonight. Il patinato primissimo piano dell'autore in copertina rispecchia il contenuto: pop piacione. Alla probabile ricerca di una mediazione tra il suono radiofonico del disco precedente e canzoni dallo stile più riconoscibile, Isaak sforna invece un disco senza carattere. La classe stavolta è più una questione di vuota eleganza che di fascino, e invece di lavorare sui cliché per una volta sembra rimanerne vittima. Soprattutto negli arrangiamenti, dove piega le sue tipiche sonorità a una certa ottusità radiofonica.
Nei momenti migliori sembra quasi un disco delle Bangles, ma senza la loro contagiosa allegria. E, nel complesso, il repertorio è tanto gradevole quanto modesto. Si salvano il folk-rock di "Courthouse" e il finto remix di "Notice The Ring", quest'ultima probabilmente la canzone più moderna mai incisa da Isaak. Non a caso alla fine l'unico momento memorabile è quello più triste e sconsolato, quello più vicino ai primi album: la splendida "Life Will Go On".
Nel 2004, tanto per essere preso ancora meno sul serio dalla critica, Isaak non si fa mancare una garbata sciocchezza: Christmas. Ovvero classici natalizi riletti in misurate versioni surf-rock, ironiche e poco sdolcinate. Magari troppo poco ironiche o forse non abbastanza sdolcinate. Tra i quattro inediti firmati da Isaak, sempre a tema natalizio, brillano due gioielli come "Washington Square" e "Brightest Star", che surclassano i classici della tradizione e ritrovano quel caratteristico fascino di cui si sentiva la mancanza nell'album precedente.
A certificare un momento musicale opaco nel 2006 esce una seconda raccolta di successi, Best Of Chris Isaak. Ma a differenza della raccolta del 1991, questa nuova compilation si presenta piuttosto incoerente e pasticciata, per nulla rappresentativa della sua carriera. Il disco contiene tre inediti, tra cui una corretta, ma scolastica, cover di "I Want You To Want Me" dei Cheap Trick e una convincente "King Without A Castle", ennesimo omaggio al maestro Orbison, che avrebbe meritato miglior contesto discografico.
Tra il 2008 e il 2010 arrivano sugli scaffali due concerti dal vivo: Live In Australia e Live At The Fillmore. Isaak è il tipico animale da palcoscenico, battuta pronta e voce sicura, anche se i terrificanti vestiti di scena che insiste a indossare quando sale su un palco sono probabilmente una delle principali ragioni per cui è tenuto in così poca considerazione come artista. Per fortuna, la musica si presenta meglio delle sue giacche. Dal vivo le canzoni suonano simili che su disco, solo più scarne ed energiche. Le copertine di questi due live complementari rappresentano bene i rispettivi contenuti: più lustro e luccicante il concerto australiano, più surfeggiante e compatto il (bel) concerto nel celebre auditorium di San Francisco. Poche hit ("Wicked Game" c'è comunque in entrambi) e molti pezzi di seconda fila riportati a nuova luce.
Dopo otto lunghi anni Chris Isaak torna con un disco di inediti. Mr. Lucky è un esauriente affresco del mondo dell'ex-pugile nei suoi cinquant'anni, su cui pesano alcuni tempi morti (un paio di molesti duetti con le cinguettanti Trisha Yearwood e Michelle Branch) e una produzione ancora troppo laccata, ma nella maggior parte dei brani si ritrova un Isaak in buona forma come autore. Forse l'ispirazione ha definitivamente lasciato posto al mestiere, ma non ha mai ricordato tanto il vate Roy Orbison ed eserciti di autori più rinomati darebbero un rene per saper scrivere un trittico di canzoni micidiali come quello che apre l'album. Un disco, insomma, di belle canzoni, niente di più, niente di meno.
Dopo l'album natalizio e i live, non poteva mancare il disco di cover. Se quindici anni prima Baja Session era stato un raffinato esercizio in punta di chitarra con cui, mescolandoli a pezzi suoi, aveva portato alcuni classici americani nel suo mondo trasognato, in Beyond The Sun accade il contrario, con Isaak che si fa risucchiare nel mondo di questi classici della mitologica Sun Studios di Memphis. Probabile che da sempre sognasse di omaggiare con dedizione e scrupolo filologico i suoi idoli, ma spesso i sogni interessano solo chi li fa e rischiano di annoiare tutti gli altri. E in effetti il disco rischia proprio di annoiare, anche perché in più di un momento non si capisce che senso abbia ascoltare Isaak che imita alla perfezione Elvis Presley, Roy Orbison, Johnny Cash, Jerry Lee Lewis e tutto il gotha dei santi del r'n'r delle origini, invece di ascoltare direttamente gli originali. Certo, sono pur sempre grandi classici e il disco risulta essere un perfetto bignami di rockabilly anni 50 (con qualche rara puntatina nei 60), suonato e cantato con amore e stile, ma se ne sarebbe tranquillamente potuto fare a meno.
Con First Comes The Night, alle soglie dei sessant'anni, Chris Isaak realizza invece quello che si può definire il disco della maturità, sicuramente la sua miglior uscita post-2000. Ormai i celebri e sognanti falsetti hanno lasciato il posto a virili e turgidi acuti, e il cantante californiano non è più da un pezzo quel mix micidiale di Elvis e Orbison passati via Jim Morrison dei suoi irripetibili anni 80, e neanche il cantautore indolente e soffuso affogato nella malinconia dei 90. È un tranquillo rocker cultore della canzone ben fatta. Dice di non voler più scrivere brani come "Wicked Game" e che quello che più lo rappresenta in questo momento è una disadorna e minimale ballata country come "The Way Things Really Are".
Il disco di cover di cinque anni prima sembra averlo riportato a un'attitudine più asciutta, levando quella patina radiofonica che smorzava i due album precedenti. In un'intervista alla rivista Buscadero del febbraio 2016, un quasi rassegnato Isaak dice di comporre e suonare ogni giorno, ma che ormai i soldi intorno alla musica sono talmente pochi che anche un autore abbastanza famoso come lui fatica ad andare in studio a registrare.
Questa impossibilità di incidere quanto e quando vorrebbe si avverte nell'eterogeneità del materiale. Ci sono almeno le atmosfere di tre o quattro potenziali dischi dentro First Comes The Night: c'è l'Isaak classico capace di sfoderare ancora due o tre ballate che non avrebbero sfigurato nei dischi antichi, ci sono atmosfere da honky-tonk e omaggi calligrafici al rock'n'roll delle origini, il solito pop d'altri tempi levigato con grande perizia artigianale. Il meglio sono forse i pezzi un po' più obliqui: l'incalzante "Insect", il manifesto gospel "Down In Flames", la quasi balcanica "Baby What You Want Me To Do", tra Willy DeVille e Leonard Cohen. Il tutto mescolato e uniformato da una vena vagamente country. Il disco, del resto, è stato in gran parte registrato a Nashville.
In definitiva, non si può dire che le ultime uscite - passate sostanzialmente inosservate - abbiano aggiunto molto a una carriera che, però, meriterebbe di essere riscoperta e rivalutata. Qualunque estimatore della misteriosa arte di saper creare piccoli universi in pochi minuti di musica dovrebbe approfondire almeno i tre dischi pubblicati da Chris Isaak negli anni 80, come retromaniaci e seguaci del pop più malinconico dovrebbero avere cari i primi due lavori del decennio successivo.